La giornata dell'economia

L’ECONOMIA REALE DAL PUNTO DI OSSERVAZIONE DELLE CAMERE DI COMMERCIO

 

Le informazioni a carattere economico-statistico messe a disposizione in occasione della “Giornata dell’Economia” offrono una chiave di lettura originale delle tendenze evolutive dei sistemi produttivi locali.

L’attenzione è qui focalizzata sull’economia reale, ossia sulle prospettive del soggetto che “muove” lo sviluppo: l’impresa. L’approccio seguito privilegia e valorizza le informazioni anagrafiche rilevate attraverso gli archivi amministrativi delle Camere di Commercio, nonché le valutazioni offerte dalle imprese di tutti settori economici, in occasione delle indagini campionarie e delle attività di monitoraggio sullo stato delle economie locali svolte periodicamente dal sistema camerale. Lo scenario che risulta da tale lettura si discosta, per molti aspetti, da quello che emerge attraverso l’analisi degli andamenti dei mercati finanziari o dei principali aggregati macroeconomici. E rivela che il sistema produttivo italiano è oggi sano e dinamico, al di là di alcuni fenomeni di natura prettamente congiunturale. 

L’originalità dell’approccio seguito non è da vedere soltanto nel ruolo centrale attribuito all’impresa e ai suoi “fondamentali” nella definizione degli scenari economici. Uno degli ulteriori punti di forza delle informazioni di fonte camerale sta nell’approfondimento della dimensione territoriale (regionale, provinciale, distrettuale) dei fenomeni economici e, soprattutto, nella capacità di cogliere le interdipendenze tra imprese e territori. Interdipendenze che impongono quindi una lettura spesso trans-provinciale (o anche trans-regionale) delle tendenze in atto: perché la stessa vita dell’impresa travalica il confine amministrativo. 

La complessità e l’articolazione dei percorsi evolutivi delle economie locali impone inoltre l’adozione di un approccio integrato alle informazioni, sia quelle riferite al “soggetto impresa”, sia quelle relative al contesto territoriale in cui è inserita. Il taglio innovativo proposto in occasione della “Giornata dell’Economia” sta proprio nell'utilizzo integrato delle diverse fonti di informazione economica del sistema delle Camere di Commercio. Utilizzo che permette peraltro di ricostruire il posizionamento competitivo di ciascuna area considerata (regionale o provinciale), sia nel suo complesso che per ciascuna tipologia di fenomeni in esame: dalle caratteristiche della base imprenditoriale alla diffusione delle reti di impresa; dalle infrastrutture materiali e immateriali alle formule imprenditoriali “vincenti”.

Attraverso il confronto e il benchmarking con le peculiarità dei diversi contesti provinciali, le singole Camere di Commercio possono fornire agli analisti economici e ai policy makers locali indicazioni utili alla definizione dei “correttivi” da apportare e, insieme a loro, riflettere sulla necessità di rimodulare le politiche di intervento, puntando al miglioramento permanente nella qualità delle relazioni tra imprese e, dunque, dell’intero Sistema Paese.

  1. LO STATO DI SALUTE DELLE ECONOMIE LOCALI

1.      lo spirito d’impresa conferma la vitalità del nostro sistema economico-produttivo

La voglia di “fare impresa” degli italiani non si è arrestata nel 2002, nonostante  la crisi internazionale e il clima di incertezza economica che ha caratterizzato l’anno. Le iscrizioni di nuove imprese e il conseguente saldo al netto delle cessazioni fanno del 2002 un anno ancora positivo, con risultati solo di poco inferiori ai valori estremamente elevati del 2001. Con riferimento al complesso delle imprese (includendo, dunque, anche quelle agricole), si sono registrate in provincia di Caserta 6.640 iscrizioni, a fronte di 4.367  cessazioni. Il saldo fra i due fenomeni è pertanto risultato positivo per 2.297 unità, pari a un tasso di crescita dell’1,5% (che sale al 1,7% al netto del settore agricolo).

Il confronto dei dati di un sessennio di demografia delle imprese mostra con chiarezza il significato delle tendenze rilevate per il 2002. Le cessazioni evidenziano l’influenza della congiuntura economica e politica internazionale (solo nel 1997 e nel 1998 si sono avuti valori più elevati) ma la forte tenuta dello spirito imprenditoriale è invece testimoniata dalle nuove iscrizioni, di poco inferiori a quelle dell’anno precedente (6.664 unità, contro le 6.970 del 2001), ovvero il secondo miglior risultato degli ultimi cinque anni.

 

2.      si rafforza la struttura organizzativa del sistema produttivo: le forme societarie sono la quota più consistente del saldo

La parte del leone continuano a svolgerla le ditte individuali: nel periodo in esame hanno rappresentato dal 90% al 67% del totale delle iscrizioni, con un saldo in continua crescita dal 1999. Tuttavia, proprio a patire dal 1999 il saldo positivo più elevato è appannaggio delle società di capitali, che negli ultimi due anni si è avvicinato addirittura alle 1.000  unità e ha un’incidenza crescente nel determinare il saldo complessivo (dal 26,5% del 1999 al 41,6% del 2002). Un analogo andamento si rileva nel caso delle società di persone e delle altre forme societarie. Si tratta, tuttavia, in molti casi di trasformazioni a partire da formule meno complesse quali quelle caratterizzanti le ditte individuali, vera e propria “palestra d’impresa”. Per almeno il 25% del totale, la cessazione di ditte individuali è infatti solo la fase, obbligata dal punto di vista amministrativo, per passare o a nuove attività o a forme giuridiche di maggior impegno economico, spesso il preludio all’ingresso in raggruppamenti di impresa (cfr. Sezione 3.2).

 

3.      la new economy in frenata. il sistema finanziario e creditizio in fase di ristrutturazione

La disaggregazione dei dati fra i vari settori economici ha mostrato nel corso del 2002, dopo  la battuta  di  arresto del 2000 e la  sensibile  contrazione  del 2001 (-1.3%), una ripresa del settore delle  costruzioni (con un tasso di crescita  che si avvicina al 2% nel periodo considerato). Per i servizi alle imprese (ovvero le attività immobiliari, il noleggio, l’informatica e la ricerca), dopo il trend positivo del 2000 e 2001  si è registrata una sensibile  battuta d’arresto subita nel corso del 2002: basti pensare che l’informatica è passata da un tasso medio annuo di crescita dell’8,6 nel 2001 ad un tasso pressoché dimezzato (4,7) nell’anno successivo. Le modificazioni strutturali che hanno segnato il comparto delle telecomunicazioni si sono tradotte in un blocco del tasso  di crescita nel corso del 2002, mentre i fenomeni di fusione e acquisizione nei comparti dell’intermediazione monetaria e finanziaria, delle assicurazioni e dei fondi pensione hanno determinato una decisa contrazione dello stock imprenditoriale. Vittime degli andamenti congiunturali sfavorevoli degli ultimi anni sono state poi alcune attività manifatturiere, con in testa l’intero “Sistema Moda” (tessile, abbigliamento e calzature).

 

4.      la “voglia d’impresa” ancora alta nel mezzogiorno

A livello territoriale si conferma il consistente contributo del Mezzogiorno alla formazione del saldo, tanto da spingere il tasso di crescita su un valore pari all’3,1%, il doppio di quanto rilevato, ad esempio, per il Nord-Ovest. Per la provincia di Caserta, in particolare, è ancora più marcato lo spirito imprenditoriale, infatti il tasso di sviluppo pari a 3,1 risulta addirittura doppio della media nazionale.

 

5.      le trasformazioni aziendali non sminuiscono la rilevanza della natalità imprenditoriale

I dati sulla nati-mortalità imprenditoriale “tradizionalmente” utilizzati non tengono tuttavia conto dei fenomeni di trasformazione e di evoluzione (come visto, spesso in direzione di forme giuridiche più complesse) che caratterizzano la vita delle imprese. L’Osservatorio Unioncamere sulla demografia delle Imprese fornisce informazioni utili a valutare l’effettiva portata dei fenomeni di natalità imprenditoriale e, pertanto, a orientare le politiche di sostegno alle nuove iniziative e ai nuovi imprenditori.

Nel 2002, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, le imprese effettivamente create in tutta la provincia di Caserta si avvicinano alle 6.700 unità, con un tasso di natalità rispetto allo stock delle imprese registrate al 31.12.2001 pari all’8.6% (includendo anche l’agricoltura e la silvicoltura). Si tratta, dunque, di un valore sensibilmente più  sostenuto rispetto a quanto emerso dalle tradizionali analisi dei dati sulle iscrizioni pubblicati da “Movimprese”, che avvalora la portata dei fenomeni di natalità imprenditoriale e la loro importanza nell’ammodernamento dell’intero sistema economico-produttivo.

 

6.      i nuovi imprenditori sono in maggioranza giovani ma ancora limitata è la partecipazione femminile

I segnali di vitalità mostrati dal nostro tessuto economico assumono una valenza ancor più importante se si tien conto del fatto che quasi 6 neo-imprenditori su 10 sono giovani con meno di 35 anni. Tuttavia, alcune barriere si frappongono ancora all’ingresso delle donne nel nostro sistema produttivo, posto che la quota relativa, stabilmente attestata sul 30%, è sensibilmente inferiore a quanto rilevato non solo per Paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito ma anche per la Spagna e il Portogallo.   

Il tessuto imprenditoriale continua quindi a rafforzarsi in termini quantitativi e, soprattutto, in termini di complessità e strutturazione organizzativa. A fronte di variazioni non particolarmente significative della dimensione media aziendale in termini di addetti, le imprese si muovono allargando la propria dimensione strategica, sviluppando accordi sul versante produttivo e commerciale, partecipando a consorzi, entrando a far parte di raggruppamenti di impresa. Questo consente di affrontare con successo i mutamenti imposti dal mercato,  facendo leva sia sulla flessibilità (secondo il modello che si è dimostrato vincente per il nostro Made in Italy), sia sullo sfruttamento di vantaggi competitivi (sul versante dell’innovazione, della finanza, della distribuzione) altrimenti non facilmente conseguibili. Nella consapevolezza che la struttura a rete sia il modello vincente da raggiungere per competere ad armi pari sullo scenario internazionale.

 

   2. ORGANIZZARSI PER COMPETERE: RETI DI IMPRESE, GRUPPI E DISTRETTI

 

7.      si diffondono le imprese “a rete”: i fenomeni di localizzazione e delocalizzazione da una provincia all’altra

Il monitoraggio degli andamenti e delle performance aziendali non può oggi limitarsi a considerare soltanto quanto avviene all’interno dei confini amministrativi, siano essi quelli provinciali o, ancor più, regionali. La valutazione dell’effettiva capacità delle imprese di generare ricchezza diffusa sul territorio deve invece tener conto dell’esistenza di collegamenti inter-aziendali, siano essi "rigidi" (come nel caso dei gruppi) o "flessibili" (come i consorzi o le relazioni di subfornitura), sui quali si gioca la capacità competitiva dell’intero sistema produttivo italiano.

L’evoluzione organizzativa delle nostre imprese può essere colta innanzitutto attraverso i mutamenti nei processi di localizzazione/delocalizzazione. La distribuzione territoriale delle unità locali delle imprese consente di evidenziare quanto, in alcune regioni del Paese, le decisioni strategiche vengano effettuate al di fuori dell’area stessa, con tutte le implicazioni che ne derivano in termini di crescita economica e sociale locale (si pensi solo al tema molto dibattuto dell'imposizione fiscale locale o a quello delle politiche di sviluppo locale).

La regione con il maggior grado di "attrazione", cioè dipendenti di imprese con sede in altra regione, è la Liguria (con in testa La Spezia): un quarto dell’occupazione dipendente è “creata” da società che non hanno sede nella stessa Liguria. Percentuali molto elevate si riscontrano, come prevedibile, anche nel Mezzogiorno, dove tale quota si attesta sul 15% (con “picchi” per Molise, Basilicata e Campania, tutte al di sopra del 20%). Al contempo, in regioni a maggior radicamento e diffusione delle imprese sul territorio (come è il caso di quelle nord-occidentali), la quota di dipendenti in unità locali di imprese “esogene” sfiora appena il 6%.

Per la regione Campania il grado di attrazione risulta pari al 19.7%. Nell’articolazione  provinciale Caserta (24.4) risulta il territorio con il tasso di attrazione più alto, seguito dalla provincia di Napoli (23,4), mentre  Salerno  nel  contesto regionale manifesta l’indice più basso. Le regioni con la percentuale più alta di delocalizzazione, cioè di occupazione creata fuori dai confini regionali, sono quelle dell’Italia Centrale (15%), capeggiate dal Lazio (28,4%, quota che raggiunge 1/3 per la provincia di Roma). Interessante osservare come il fenomeno delocalizzativo verso altre regioni italiane sia accentuato nel Nord-Ovest (12%) e di scarsa rilevanza nel Nord-Est (5,1%).

 

8.      i gruppi, punta di diamante del sistema produttivo italiano

La diffusione su un dato territorio di unità locali riferite ad imprese esogene è, tuttavia, solo uno degli indicatori utili a valutare l’entità e la robustezza delle reti di imprese. Reti che passano attraverso lo sviluppo delle collaborazioni inter-aziendali (sul versante produttivo e/o di servizio) o anche attraverso la creazione o la partecipazione a raggruppamenti d'impresa, come potrebbe far supporre anche il graduale ispessimento delle forme giuridiche  assunte dalle aziende (come già visto nella Sezione 1.1).

L’Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa ha individuato all’inizio del 2000 quasi 122.000 società appartenenti ai 42mila gruppi di impresa italiani, il 40% dei quali appartenenti alle regioni nord-occidentali (circa 16.500). Si tratta della punta di diamante del nostro sistema produttivo: pur abbracciando un quarto delle società di capitale italiane, ne assorbono i tre quarti dell’occupazione totale e i due terzi del fatturato complessivo.

Lombardia e Lazio sono le regioni con la maggior diffusione dei gruppi d’impresa. In Lombardia, il 28,1% delle società agisce all’interno di un gruppo e, complessivamente, il 37,6% dell’occupazione regionale in aziende private è riconducibile a società “associate”, quota che nel Lazio sfiora addirittura il 50%. La presenza dei gruppi è maggiormente radicata nell’Italia settentrionale, in particolare nelle aree caratterizzate dai distretti industriali che, per la loro forte organizzazione interna, favoriscono la creazione di legami societari. Nel Mezzogiorno, solo un’impresa ogni cento è interessata al fenomeno e, quasi sempre, come società controllata e non come capogruppo.

Oltre 8 imprese controllate su 10 fanno riferimento a capogruppo localizzate nella stessa provincia: al Sud, tale valore (che supera il 90%) può rimandare a una precisa scelta organizzativa finalizzata alla distribuzione delle attività (e dei costi relativi) tra più società geograficamente contigue; nel Nord-Ovest, invece, la quota relativa (più contenuta rispetto alla media) conferma l’esistenza di maggiori vantaggi localizzativi nell’area, che spingono società esterne ad investire con maggiore frequenza nel controllo di imprese locali o nella creazione ex novo di società controllate.

Il ricorso al controllo di altre aziende, pur essendo trasversale e presente in tutti i comparti produttivi, si concentra maggiormente in alcuni settori. Limitando l'analisi alle società di capitale, l'industria manifatturiera presenta un tasso di "associazione" pari a circa il 24%. In termini di numero di società, il settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria è quello che presenta il valore più elevato (il 59% delle società di capitale fanno parte di un gruppo), percentuale che trova spiegazione nella diversificazione operata da molte aziende e rivolta in molti casi al settore finanziario. Nel settore del commercio, due imprese su dieci (nella maggioranza dei casi di società di grandi dimensioni) hanno partecipazioni di controllo in altre imprese.

 

9.      le reti imprenditoriali travalicano i confini nazionali: dal nord-ovest i più consitenti flussi di investimenti verso l’estero

L’estensione delle reti di impresa è un fenomeno che non esaurisce la propria portata all'interno dei confini nazionali. La globalizzazione dei mercati, l'internazionalizzazione e la delocalizzazione produttiva delle imprese stanno segnando profondamente le modalità organizzative del nostro sistema economico, con effetti soprattutto sulle regioni più sviluppate che, attualmente, ne costituiscono il motore. Su un totale di oltre 41,5 miliardi di euro di investimenti diretti (IDE) dall’Italia verso l’estero nel 2001 (che includono anche le partecipazioni in società straniere), le imprese del Nord-Ovest da sole ne contano quasi il 57%, con un incremento medio annuo nell’ultimo triennio pari al +45%. La Lombardia e il Lazio si confermano le regioni a maggiore apertura verso l’estero (nel secondo caso grazie soprattutto ai servizi, in particolar modo quelli finanziari e creditizi), concentrando rispettivamente il 40% e il 30% dei flussi di investimenti italiani all’estero. Diverso è lo scenario riferito al rado di attrattività delle nostre province e regioni da parte degli investitori esteri: la Lombardia detiene ancora una volta il primato nazionale (51% di un flusso complessivo pari a quasi 31 miliardi di euro), seguita a distanza dalla Toscana con poco meno del 20% (probabilmente per un’incidenza maggiore degli investimenti immobiliari) .   

Lo sviluppo delle interdipendenze tra unità produttive e territori (a livello nazionale e internazionale) ha delle profonde implicazioni sull’organizzazione della capacità di risposta da parte dei soggetti istituzionali chiamati a intervenire nelle politiche di sviluppo. In tale contesto, l’approccio funzionale che caratterizza le Camere di Commercio (anche perché coniugato a quello territoriale), si configura come quello maggiormente valido nel sostegno allo sviluppo dei collegamenti e delle connessioni, sia fra le imprese che fra i territori.

 

3. DIFFERENZIALI DI SVILUPPO E VANTAGGI LOCALIZZATIVI DEI TERRITORI


10.  si riduce leggermente la forbice nei divari territoriali di sviluppo

I percorsi di sviluppo seguiti dalle province italiane sono stati “tradizionalmente” individuati attraverso l’analisi del valore aggiunto pro-capite, indicatore sintetico utile a misurare i livelli di crescita su scala territoriale. Tra il 1995 e il 2001 si è verificata una riduzione della “forbice”: il rapporto tra il valore della prima provincia in classifica (Milano) e l’ultima (Crotone) scende nel periodo da 3,1 a 2,9 volte. Nella posizioni più elevate della graduatoria delle province in base alla variazione del valore aggiunto per abitante tra il 1995 e il 2001 si collocano, peraltro, proprio alcune di quelle con i valori di partenza più bassi (è il caso di Vibo Valentia e di Crotone). Tuttavia, la graduatoria delle province al 2001 vede ancora una distribuzione del reddito sempre estremamente concentrata nelle regioni del Centro-Nord. Le posizioni di testa sono occupate da Milano (che si conferma il “locomotore” delle province), seguita da Bolzano, Modena, Bologna e Reggio Emilia (superiori di oltre il 35% alla media nazionale), mentre nelle ultime cinque posizioni della classifica, tutte al di sotto del dato Italia del 40%, si trovano Vibo Valentia, Caltanissetta, Enna, Agrigento e, ultima, Crotone. La regione Campania ha incrementato il  reddito pro capite del 33,8% tra il 1995 ed il 2001, variazione  superiore a quella registrata a livello nazionale. La provincia di Caserta con 12.213 € di reddito medio, nel periodo di riferimento ha conservato la stessa posizione (89^) nella graduatoria nazionale e la variazione calcolata per l’intero periodo è stata del 30% pari alla media nazionale.

Il confronto settoriale dei dati del valore aggiunto provinciale mette in luce un’ulteriore intensificazione del processo di terziarizzazione delle economie locali tra il 1995 e il 2001: l’incidenza dei servizi sul totale delle attività è cresciuta in ben 95 province su 103 (con un particolare dinamismo fatto registrare da Biella, Prato,. Treviso, Varese e Lecco).

 

11.  i dati microeconomici sulla produttività confermano l’esistenza di divari su scala territoriale

Al di là dell’informazione di sintesi rappresentata dal PIL per abitante, l’analisi dei differenziali di sviluppo va proseguita attraverso l’utilizzo di dati microeconomici, seguendo una logica che privilegia anche in questo caso l’economia reale. I dati disponibili attraverso l'Osservatorio Unioncamere sui bilanci delle società di capitale (riguardanti oltre 500.000 società di capitale italiane) consentono di sviluppare un’analisi puntuale della produttività per addetto, valori ottenuti distribuendo il valore aggiunto di ogni singola azienda in proporzione agli addetti occupati nelle diverse unità locali.

Nel 2000 la produttività nominale del lavoro, misurata dal valore aggiunto per addetto, era pari a 48mila euro, con alcun nette differenziazioni su scala territoriale. Al Sud, il valore aggiunto per addetto si attesta sui 41.800 euro, con uno scarto del 13,1% in confronto alla media nazionale. Al contempo, le regioni del Nord-Ovest e del Centro (specialmente il Lazio e la Lombardia) si distinguono per una produttività più elevata, mentre il Nord-Est si attesta su un valore inferiore del 16% rispetto a quello del Nord-Ovest.

La graduatoria delle province italiane in base al valore aggiunto per addetto nelle società di capitale per l’anno 2000 è anch’essa capitanata da Milano, in questo caso seguita da Biella, Ravenna, Cremona e Chieti (tutte con valori superiori di 15 punti percentuali rispetto alla media nazionale).Per Caserta il valore aggiunto per addetto (37.500 €) è più basso di 11.000 € rispetto alla media nazionale e di 3.500 rispetto a quella regionale. Il differenziale maggiore si verifica nell’industria, dove il valore aggiunto per addetto è di 42.000 € contro i 53.000 del totale Italia.

L’analisi settoriale evidenzia alcune differenze tra le società di capitale manifatturiere e quelle appartenenti ad altri settori, in primo luogo quello agricolo. Il valore aggiunto per addetto delle società industriali è pari a 53.400 euro, valore superiore del 25% circa rispetto a quello relativo agli addetti del terziario e dell’84% rispetto al valore medio unitario degli occupati nell’agricoltura.

 

12.  i differenziali territoriali e settoriali del costo del lavoro

La riduzione del gap fra Centro-Nord e Mezzogiorno passa quindi anche attraverso il rilancio della produttività del lavoro nelle regioni meridionali. Alle performance in termini di produttività vanno poi agganciati incrementi effettivi del costo del lavoro, perseguibili, tra l’altro, attraverso un rinnovato slancio della flessibilità dei contratti a livello territoriale.

Il costo del lavoro per addetto al Sud si attesta su valori decisamente più bassi rispetto alla media nazionale: per il 2000, tale valore è pari a circa 24mila euro, contro i 27,5 dell’Italia (con una forbice pari quindi al 15%). Al contrario, per le regioni nord-occidentali (Lombardia in testa) si rileva un costo medio del lavoro pari a poco più di 30mila euro per addetto.

Data anche la differenza esistente tra i gap in termini di inflazione e di produttività tra le diverse aree del Paese, un più efficiente funzionamento dei mercati locali del lavoro potrà portare col tempo a una maggiore distribuzione dei vantaggi di competitività sul territorio, generando migliori opportunità localizzative anche per il Mezzogiorno.

 

13.  dalla redditività delle imprese alla redditività del territorio: quanto frutta investire in impresa nelle diverse realtà locali?

Pur con le dovute cautele, legate alla rilevanza a livello locale di alcuni settori con più elevati tassi di profitto, è possibile individuare i differenziali nella redditività del capitale su scala territoriale. Il ROI nel 2000 è stato pari al 5,7%, con un incremento continuo a partire dal primo anno di osservazione (4,4% nel 1997). E se le società meridionali non manifestano alcun incremento sensibile di redditività (il valore relativo oscilla su valori di poco superiori al 3,5%), quelle del Centro-Nord sono passate da un 4,5% del 1997 a un 5,9% del 2000, grazie soprattutto all’impennata del Nord-Ovest (6,8% nel 2000).

 

14.  le infrastrutture come esternalità positive per la localizzazione

Il Paese guadagna in competitività, però, non soltanto facendo leva su una maggiore flessibilità nei mercati locali del lavoro ma anche valorizzando le esternalità all'impresa, in primo luogo quelle infrastrutturali, del mercato del credito, del sistema formativo e della ricerca, nonché dell'efficienza amministrativa.

Le infrastrutture influenzano in modo decisivo la capacità competitiva del territorio e delle imprese che in esso producono: non essendo sostituibili (o essendolo in modo solo parziale) da altre forme di capitale, la loro localizzazione e la loro qualità determinano sensibilmente il potenziale di sviluppo di un’area. Una migliore dotazione infrastrutturale aumenta la produttività dei fattori della produzione e ne diminuisce i costi di acquisizione. Nelle nuove teorie della crescita, il capitale pubblico viene spesso considerato fonte di esternalità positive sullo sviluppo endogeno e, quindi, fattore di crescita dei sistemi locali.

Gli indicatori infrastrutturali territoriali, letti nella loro storia recente, consentono di fornire ulteriori elementi per l’analisi dei divari esistenti nel nostro Paese. Confrontando i livelli di dotazione infrastrutturale media nel periodo 1997-2000 (misurati in termine di numero indice, ponendo pari a 100 il valore italiano), emerge il persistere di un gap per il Sud pari a 22 punti percentuali, che salgono a 25 se si esclude la dotazione di infrastrutture portuali.

Non si rilevano, quindi, significative differenze rispetto all’assetto rilevato all’inizio degli anni Novanta, con un Mezzogiorno che presenta indici di variazione nella dotazione media inferiori alla media nazionale, sia pur con alcune eccezioni a livello provinciale (Napoli, Trapani, Messina e Catania).

 

15.  il mercato del credito è ancora debole dove è più forte la voglia di “fare impresa”

Un ulteriore fattore che gioca nel determinare il livello di competitività di un'area è il funzionamento del mercato del credito. I differenziali a livello territoriale (che si acuiscono quando si spinge l'analisi anche sul versante della dimensione d'impresa) sono ancora oggi evidenti. L'Osservatorio Unioncamere sui bilanci delle società di capitale fornisce alcuni dati al riguardo: per ogni 100 € di ricchezza prodotta, le società di capitale del Sud devono destinare 12,1 € in oneri finanziari, mentre per il Centro-Nord l’incidenza degli oneri sul valore aggiunto è pari all’11,4% (con un valore ancora più basso nel caso del Nord-Ovest, con l’11,1%).

Tali dati evidenziano con chiarezza una delle criticità del nostro sistema: il mercato del credito appare più debole proprio nelle aree dove maggiore è la nascita di nuovo tessuto imprenditoriale, cioè nel Mezzogiorno. Le vischiosità che caratterizzano la domanda e l’offerta di credito nelle regioni meridionali sono peraltro evidenti attraverso l’analisi dei principali indicatori creditizi, tra i quali si segnala un valore ancora decisamente elevato delle sofferenze sugli impieghi (14% al Sud, con un picco del 19% in Calabria, contro il 2,5% del Nord).

 

16.  il sistema delle agevolazioni come strumento di riequilibrio delle diseconomie esterne

Un possibile bilanciamento del più contenuto tasso di redditività che caratterizza le regioni meridionali può essere individuato nel sistema agevolativo previsto dalla legge n. 488/92, in gran parte indirizzata proprio alle imprese del Mezzogiorno (dove si concentra poco meno dell’80% delle domande, con un 92% di quelle relative all’ultimo bando sul Commercio). Nel complesso, gli investimenti agevolati nel corso del 2002 per l’industria (11° bando), il turismo (3° bando) e il commercio (2° bando) sono stati pari a 2,5 miliardi di euro, con un impatto occupazionale pari a circa 68mila unità.      

Risulta inoltre indispensabile promuovere una maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione, perché da questa possa provenire un impulso alla produttività e, quindi, alla creazione di esternalità da agglomerazione. Indagini condotte su scala nazionale dall'Unioncamere in collaborazione con l'ISTAT evidenziano, peraltro, alcuni chiari segnali di miglioramento a partire dalla metà degli anni Novanta, con una diminuzione tra il 1996 e il 2000 degli oneri amministrativi gravanti sulle imprese.   

 

4. LE FORMULE IMPRENDITORIALI VINCENTI

 

17.  la media impresa: il motore dei rapporti di interdipendenza

Anche in una fase congiunturale non facile come quella attuale, le aziende leader nei sistemi imprenditoriali contraddistinti da legami tra le diverse componenti (gruppi, reti stabili di subfornitura, distretti industriali) hanno mostrato capacità di reggere il confronto interno e internazionale, grazie alla qualità, allo stile e alla flessibilità che le contraddistinguono e che rendono unico il Made in Italy.

Si tratta delle imprese di medie dimensioni, tra le quali (soprattutto nei casi di cooperazione “flessibile” con altre unità collocate più a valle della filiera produttiva) spiccano quelle di dimensioni piccole o medio-piccole, a ulteriore conferma che non vi può essere contrapposizione tra efficienza e dimensioni produttive. Tali imprese competono sullo scenario nazionale e internazionale grazie a strategie “aggressive” mirate all’incremento del valore aggiunto delle produzioni, attraverso un maggiore contenuto innovativo e di servizio dei prodotti.

L’obiettivo di snellirsi cercando di concentrarsi sul proprio core business (per essere maggiormente reattivi alla variabilità della domanda e introdurre più rapidamente innovazioni di prodotto e di processo) porta le medie imprese a sviluppare anche una maggiore libertà nelle strategie di collaborazione e di localizzazione (o de-localizzazione) all’estero, soprattutto in aree con maggiori vantaggi di costo (Est-Europa, bacino del Mediterraneo, Asia) per le fasi maggiormente labour intensive.

 

18.  il rafforzamento della qualità delle risorse umane come fattore competitivo delle imprese

L’innovazione delle tecnologie e dei modelli organizzativi “vincenti”  passa oggi anche attraverso la flessibilità della dotazione professionale (e della versatilità delle abilità del dipendente), variabile critica per il successo dell’impresa. Le azioni mirate alla crescita professionale delle risorse umane abbracciano tuttavia una fascia ancora limitata del “mercato del lavoro interno” all’azienda: il 14% circa dei dipendenti alla fine del 2001 ha seguito attività formative, quota peraltro sostanzialmente stabile dalla fine degli anni Novanta.

Il quadro generale muta sostanzialmente in base al profilo aziendale, tanto da notare una diffusione decisamente più elevata tra le medio-grandi (dove vengono formati in media un dipendente ogni dieci) e le grandi imprese (un dipendente su quattro). Ma se tra queste ultime la formazione è una pratica ormai consolidata, va evidenziato un sempre crescente orientamento alla formazione come fattore competitivo di successo da parte delle medie imprese. Quelle di medio-piccole dimensioni (tra i 10 e i 49 dipendenti) fanno rilevare la quota più elevata di personale formato, sia dipendente che indipendente (poco meno di 245mila addetti); al contempo, le medio-grandi (50-249 dipendenti) si mostrano le più dinamiche, con incrementi nel numero di personale formato di poco inferiori al 10%.

 

19.  la diffusione di comportamenti innovativi attraverso le assunzioni di figure professionali a elevata specializzazione

La chiave di volta per il successo delle nostre imprese (sui mercati nazionali e internazionali) sta sulla capacità di investire in formazione iniziale e continua e di incrementare la quota di valore aggiunto attraverso un maggiore impegno nella R&S, che potrà, in prospettiva, avere effetti anche sull'incremento della produttività del lavoro. E’ una strada che le aziende italiane stanno peraltro già percorrendo, puntando in prima battuta proprio sulle risorse umane.

Le professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione hanno fatto rilevare il più elevato tasso di entrata in termini di assunzioni programmate nel corso del 2002 (13,8%, a fronte di una media del 6,7%), a conferma di un preciso orientamento strategico finalizzato allo sviluppo di comportamenti innovativi all’interno dell’impresa. Strategia che si basa anche sull’adozione di innovazioni sul versante del prodotto e del processo, a partire dall’ideazione e dallo sfruttamento di brevetti. Poco meno della metà delle domande depositate per invenzioni dal 1996 a oggi è tuttavia appannaggio delle regioni nord-occidentali, a fronte di un’incidenza pari a circa il 5% per il Mezzogiorno, nonostante un continuo incremento nel corso degli ultimi anni.

 

20.  lo sviluppo dell’innovazione e delle tecnologie: una carta vincente sui mercati internazionali

L’incremento del grado di tecnologia incorporato nei beni potrebbe avere ripercussioni positive soprattutto sulle nostre esportazioni (diminuite del 2,8% a chiusura del 2002), in quanto consentirebbe all’Italia di porsi al riparo dalla concorrenza dei Paesi emergenti più ricchi di fattori competitivi, ossia di materie prime e fattori di produzione a basso costo (come il lavoro).

Utilizzando la tassonomia di Pavitt, che raggruppa le imprese e i settori di attività in diverse tipologie sulla base del peso in termini di tecnologia implicita (dal manifatturiero tradizionale fino ai comparti a più alta intensità di R&S), emergono tuttavia evidenti criticità, soprattutto su scala territoriale. Le regioni del Nord-Ovest, alle quali si riferisce il 40% delle nostre esportazioni (con un conseguente grado di apertura verso l’estero che raggiunge il 30,6%), vedono un’incidenza dell’export di produzioni specializzate e high-tech pari al 48,3% del totale dell’area. Al contempo, il Mezzogiorno concentra solo l’11% dei flussi commerciali verso l’estero, anche per un più contenuto livello di specializzazione nei beni ad alta tecnologia (36,2% dell’export, contro il 42,9% della media).

Le aziende in grado di attingere la propria tecnologia da fonti prevalentemente interne (legate a elevati investimenti in R&S e ad attività di ingegnerizzazione) sono oggi essenzialmente di medio-grandi e grandi dimensioni (elettronica, bioingegneria, chimica organica). Ed è proprio la limitata partecipazione di gran parte del nostro tessuto di piccole e piccolissime imprese ai circuiti privilegiati dell’innovazione uno dei maggiori elementi di vulnerabilità del nostro Paese sullo scenario internazionale. L’innalzamento del livello di competitività del Sistema Italia può essere dunque legato, in prospettiva, alla capacità delle imprese di "fare sistema" e di connettersi attraverso legami "forti" o flessibili (particolarmente evidenti nei distretti industriali), in modo da portare anche le aziende di più piccola dimensione a sviluppare innovazione formalizzata nella R&S e, dunque, ad acquisire maggiori vantaggi competitivi.

La produttività, l'efficienza, l'innovazione e la qualità delle produzioni italiane vanno quindi perseguite de-enfatizzando gli interventi mirati all'accrescimento della competitività individuale e avendo come obiettivo il miglioramento permanente delle modalità di relazione fra le imprese.

Alcuni problemi vanno tuttavia affrontati nell'immediato per rafforzare la competitività del Sistema; a partire dal contenimento del tasso di inflazione. I prezzi al consumo hanno subito, nell’arco del 2002, una rapida inversione di tendenza, attestandosi in media annua sul 2,4%. Se a ciò si aggiunge che in Italia si sta sperimentando un marcato rallentamento della produttività del lavoro, se ne desume un quadro in cui si potrebbe concretizzare un’accelerazione del costo del lavoro per unità di prodotto, con indubbi riflessi negativi sulla competitività delle nostre produzioni.  

Sviluppo di collegamenti e connessioni; prosecuzione dell’impegno nelle politiche per la formazione, la ricerca e l'innovazione; rafforzamento delle infrastrutture materiali e immateriali di cui il Paese ha bisogno per competere. Sono dunque queste, in sintesi, le linee sulle quali il sistema delle Camere di Commercio, coniugando in sé l'approccio territoriale e quello funzionale delle politiche economiche, è chiamato ad intervenire da parte dei protagonisti dello sviluppo economico italiano: le imprese.

 

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